Una vita per le anime
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- Pubblicato: Venerdì, 02 Maggio 2008 20:16
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L’infanzia
Giuseppe Marrazzo nacque a San Vito dei Normanni (Br) il 5 maggio 1917, una settimana prima dell’apparizione della Vergine Maria a Fatima. Era il sesto dei nove figli nati da Luigi, contadino, e Maria Concetta Parisi, che badava alla casa e alla numerosa famiglia. Fu battezzato il giorno dopo la nascita nella parrocchia di San Domenico.
Negli anni delle elementari, Peppino, come lo chiamava la mamma, provava scarso interesse per lo studio: preferiva andare nei campi ad aiutare il padre e i fratelli pensando di seguire le loro orme. Il Signore, però, aveva altri progetti su di lui. Peppino sentiva una forte attrazione verso l’Eucaristia e quando poteva si recava in chiesa a fare compagnia a Gesù. Il 7 giugno 1925 si accostò per la prima volta all’Eucaristia e tre anni dopo, il 2 giugno 1928, gli fu conferito il sacramento della Cresima.
La vocazione
La sua religiosità semplice e genuina, unita a un carattere docile, non passò inosservata a monsignor Francesco Passante, Arciprete di San Vito dei Normanni, molto attento ai segni di vocazione presenti nei ragazzi della parrocchia. Fu mamma Maria Concetta che un giorno chiese al figlio: «Peppino, vuoi farti sacerdote?». «Sì», fu la risposta pronta e decisa.
I genitori ne parlarono all’Arciprete, cugino materno, il quale indirizzò Peppino alla Scuola Apostolica dei Rogazionisti del Cuore di Gesù ad Oria (Br) dove aveva instradato altri ragazzi. Ad Oria i Rogazionisti, fondati a Messina da Sant’ Annibale Maria Di Francia per obbedire al comando scaturito dal Cuore di Gesù: «Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-38), oltre alla Scuola Apostolica avevano un orfanotrofio con scuola di arti e mestieri per avviare i ragazzi al lavoro.
Così, ormai tredicenne, il 20 ottobre 1930 Peppino entrò nella Scuola Apostolica. Il Fondatore dei Rogazionisti era morto da appena tre anni, ma il suo ricordo era ancora vivissimo. Più di una volta Peppino visitò la stanza usata da Sant’Annibale nei suoi soggiorni ad Oria e ne assimilò gli insegnamenti.
Una lotta contro la passione predominante
Il 29 settembre 1934 Giuseppe iniziò il noviziato insieme ad altri undici compagni. Si affidò con docilità alla guida del Padre maestro, Domenico Santoro. Col suo aiuto comprese che per farsi santo bisognava individuare e vincere la passione predominante. Nel caso di fratello Giuseppe, si trattava dell’egoismo unito all’invidia. Con l’aiuto del Maestro comprese bene quali fossero gli strumenti per debellarlo: «Mi devo mostrare affabile con tutti, chiedere un cuore tenero a Gesù e Maria, abbondare negli atti di carità, essere famigliare. Penserò che le anime dei confratelli sono anime redente dal sangue di Gesù. Sono anime consacrate a Dio. Devo pregare per la loro santificazione e così, con la grazia del Signore, vincerò la passione predominante».
La professione religiosa
Dopo diciotto mesi di noviziato, fratello Giuseppe emise la prima professione religiosa il 29 marzo 1936. Rinnovò annualmente i voti fino al 24 settembre 1940, quando si consacrò definitivamente al Signore nella famiglia religiosa dei Rogazionisti.
Prima d’iniziare gli studi teologici il giovane religioso fece il “magistero” che consisteva nell’interrompere gli studi per dedicarsi all’educazione e assistenza degli orfanelli. Fu assegnato alla Casa Madre di Messina, attigua al Santuario di Sant’Antonio di Padova, voluto da Padre Annibale Maria Di Francia e costruito grazie alle offerte dei numerosi devoti e benefattori antoniani.
Educatore
Peppino giunse a Messina il 14 agosto 1938. Subito si dedicò senza sosta agli orfanelli, senza trascurare la preghiera. Ogni sera, dopo le preghiere comunitarie, ottenuta l’autorizzazione del superiore, sostava a lungo in cappella per affidare al Signore i suoi orfanelli e impetrare dalla Mamma celeste un maggiore amore verso di loro per portarli ad amare Gesù.
Nella sua inesperienza a volte alzava la voce per ottenere ordine e impegno; ben presto si rese conto che in quel modo, senza l’ amore verso i ragazzi, non si conseguiva lo scopo dell’educazione. Nel suo diario annotò: «Riguardo al trattamento dei ragazzi, vedo che castigan-doli non posso ottenere mai che mi amino e che obbediscano per amore e non per timore».
Studente di Teologia
Fra Peppino iniziò i corsi teologici il 9 ottobre 1939 presso il Seminario diocesano di Messina. Successivamente, a causa della guerra, i superiori decisero, con grande gioia degli studenti, d’iniziare la scuola teologica interna. Così a partire dal 4 novembre 1941 poté studiare accanto al santuario di Sant’Antonio, luogo del suo futuro apostolato. La difficoltà che incontrava nello studio era compensata dall’intensa determinazione a compiere la volontà di Dio, convinto che anche la fatica dello studio può essere preghiera.
Sacerdote
Sette Rogazionisti, incluso fratello Giuseppe, furono ordinati diaconi il 2 maggio 1943, Domenica in Albis, nella chiesa madre di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), dove il Seminario maggiore era sfollato a causa della guerra. Per lo stesso motivo, l’ordinazione sacerdotale venne anticipata per tutti e sette: il 9 maggio 1943, appena una settimana dopo. Padre Giuseppe celebrò la Prima Messa l’indomani, nel santuario della Madonna della Neve a Santa Lucia del Mela, era presente la comunità Rogazionista di Messina, sfollata lì a causa dei bombardamenti sulla città di Messina.
Nel 1949 ricevette l’incarico di addetto al santuario di Sant’Antonio, e successivamente fu nominato direttore spirituale dei ragazzi della Scuola Apostolica. La sua dedizione al ministero della confessione attirò l’attenzione di Padre Angelico d’Alessandria ofm, visitatore apostolico dei Rogazionisti, il quale un giorno gli disse: «Voi sarete apostolo del confessionale!». Fu profeta!
A Padova
Padre Giuseppe gioì intimamente nell’ascoltare Padre Angelico perché era suo desiderio dedicarsi alla confessione. Tuttavia, nel 1956, i superiori lo trasferirono nella casa di Padova, con l’ufficio di direttore spirituale dei seminaristi rogazionisti e animatore vocazionale.
Obbedì prontamente, ma si sentì come sradicato da un ambiente tanto promettente. Scrisse allora un biglietto che depose sulla tomba del Fondatore, nel santuario di Sant’Antonio: «Amato Padre, esaudisci il desiderio del mio cuore: fammi tornare presto a Messina, qui in questa tua chiesa, che è un’anticamera del Paradiso. Ho fiducia che la mia assenza sarà solo di pochi mesi. Padre, esaudiscimi presto».
Come modello, san Leopoldo Mandić
Nella città veneta conobbe meglio la figura di Padre Leopoldo da Castelnuovo ofm, al secolo Bogdan Ivan Mandić, vissuto e morto a Padova in concetto di santità (1866-1942), e gli divenne molto devoto.
Nel 1952, a dieci anni dalla morte di lui, gli si rivolse invocandolo come santo (all’epoca era Servo di Dio; sarebbe stato canonizzato nel 1983): «O San Leopoldo da Castelnuovo, voi che confessaste per circa 40 anni in Padova, ottenetemi che Messina diventi una seconda Padova per me. Che io diventi tanto santo, morto a me stesso e che faccia diventare il nostro Santuario un giardino profumato di virtù e di santi. Fatemi incontrare un buon padre spirituale e che io diventi il padre di tutti, che tutti quelli che si avvicinano a me siano presi dall’amore di Gesù, come il ferro dalla calamita».
Di nuovo a Messina
L’anno successivo i superiori lo trasferirono ancora a Messina. Poté quindi riprendere con gioia il suo ministero, dedicandosi alle confessioni senza limiti d’orario. A qualche confratello che considerava esagerata la sua dedizione e lo richiamava perché rispettasse l’orario delle confessioni, rispondeva con semplicità disarmante: «Non voglio avere la responsabilità che qualche penitente muoia senza essersi confessato perché non mi ha trovato».
Al suo confessionale s’inginocchiavano fedeli di ogni stato di vita e condizione sociale; per tutti aveva una parola d’incoraggiamento. Era conosciuto come uomo di pace e pacificatore, per questo quando in famiglia insorgevano conflitti o difficoltà si chiamava Padre Marrazzo; ha risanato unioni coniugali pericolanti dissuadendo e confortando persone disposte all’omicidio e al suicidio. Da vero figlio di Padre Annibale non dimenticò i poveri ai quali, con l’autorizzazione dei superiori, donava quanto poteva, invitando i giovani ad evitare l’accattonaggio e ad essere intraprendenti e laboriosi.
Sempre a disposizione
Per gli ammalati, poi, aveva un occhio di riguardo. La sera, prima di coricarsi, avvisava il sacrista di svegliarlo in qualsiasi momento della notte qualora lo avessero chiamato per amministrare i sacramenti della confessione e dell’unzione degli infermi. Il sacrista attesta di averlo accompagnato più di una volta a casa di ammalati gravi nel corso della notte. Per questo, la gente lo definiva «Il 118 degli ammalati», mentre monsignor Francesco Fasola, arcivescovo di Messina (anche per lui è in corso il processo di beatificazione), ebbe a dichiarare che «Il Santuario di Sant’Antonio è la clinica spirituale di Messina, della quale Padre Marrazzo è il medico di guardia». Lui, invece, si autodefiniva in questi termini: «Mi sento come un taxi che deve portare le anime a Gesù. Sono il “taxista” delle anime. Senza di esse sarebbe inutile la mia vita». Salvo il biennio 1972-’74, quando fu vice-superiore della casa di Zagarolo, Padre Giuseppe non lasciò mai la casa di Messina.
Sempre con la caramella e la chitarra
Per iniziare a comunicare con qualcuno, don Peppino estraeva dalle tasche una caramella e la dava al suo interlocutore, spesso accompagnandola con l’invito: «Fatti santo!». Altre volte la porgeva senza dire nulla, ma elargendo un sorriso pieno di cordialità. La chitarra, che aveva appreso a suonare da adulto, era l’altra inseparabile compagna: con essa tirava su di morale gli ammalati che visitava e animava le ricreazioni e le serate con i confratelli. Nel suo diario scrisse a riguardo: «Nulla è sprecato nella giornata del sacerdote, anche suonare la chitarra, perché faccio tutto per Dio. Quasi sempre porto con me la chitarra, come mezzo di apostolato e veramente mi aiuta, posso avvicinare le persone, confortare gli anziani, tenere allegri i sacerdoti infermi che si trovano nella casa di cura».
La devozione mariana e la maternità sacerdotale
Era convinto che la sua capacità d’indirizzare le persone fosse dovuta all’intercessione della Vergine Maria, che invocava come Madre del Buon Consiglio sin dagli anni della Scuola Apostolica ad Oria. Gradualmente prese coscienza del fatto che anche a lui, come al discepolo amato, Gesù sulla Croce aveva affidato sua Madre. Certo di non dover fare altro che seguirne le indicazioni, si affidava a Lei con queste parole: «Mamma mi sforzerò di essere sacerdote come vuoi tu, perché ritengo i tuoi consigli tutti ispirati da Gesù». Dall’esperienza radicata nell’amore di mamma Concetta e maturata nel dialogo con una figlia spirituale che aveva il cuore sacerdotale, don Peppino comprese che ogni donna che imita Maria, madre di Gesù sacerdote, può essere mamma sacerdotale. Alle figlie spirituali, che considerava sorelle e madri, soleva dire: «Se volete aiutare e amare i sacerdoti, amate Gesù perché noi sacerdoti siamo “in Lui”». Come Maria, la mamma sacerdotale «deve stare un passo indietro per non distogliere il “figlio” dal dedicarsi alla cose del Padre». Padre Giuseppe guidò molte donne, madri di famiglia o nubili, lungo la strada della maternità sacerdotale che coincide con la strada della santità.
La morte
Negli ultimi mesi del 1992, Padre Giuseppe si sentiva particolarmente stanco. Per questo motivo, la prima Domenica d’Avvento, che quell’anno cadeva il 29 novembre, annullò la visita ai malati dell’ospizio di Collereale, concentrandosi sulle confessioni e sulla celebrazione dell’Eucaristia.
Nell’omelia, commentando il passo del Vangelo che parla della venuta improvvisa del Signore, affermò: «Anch’io ho paura della morte improvvisa, ma mi affido alla misericordia del Signore». In seguito quelle parole parvero a molti una sorta di presagio.
La sera, dopo aver mangiato qualcosa, Padre Giuseppe andò subito a letto, accusando di nuovo la stanchezza. Il mattino seguente, lunedì 30 novembre, il sacrista non lo trovò in chiesa, come avveniva di solito. Aspettò qualche istante, poi andò a bussare alla sua porta, senza ricevere risposta.
Chiamò dunque il direttore della comunità, Padre Michele Ferrara, per avvisarlo di quell’insolita assenza. Infine fu forzata la porta: Padre Giuseppe era a letto, sembrava dormire serenamente, ma il suo cuore non batteva più. Il medico di casa non poté fare altro che constatare il decesso per arresto cardiaco. Aveva 75 anni, di cui 56 di professione religiosa e 49 di sacerdozio. La notizia si diffuse immediatamente in città, La voce del popolo, si sa, talvolta è anche profetica: «È morto un santo!». Si sentiva dire. Non pochi fedeli, visitando la salma, hanno preferito rendere lode a Dio con un Gloria Patri piuttosto che recitare un Requiem.
La causa di beatificazione e canonizzazione
La fama di santità di cui don Peppino godeva quand’era in vita non l’abbandonò da morto diffondendosi anche fuori d’Italia. Molti dei suoi penitenti attestano di aver preso la giusta strada e di aver ricevuto da lui consigli preziosi per la propria esistenza. A fronte delle numerose segnalazioni di grazie e della persistente fama di santità, i Rogazionisti hanno chiesto all’Arcivescovo di Messina di aprire il processo di canonizzazione. Ottenuto il nulla osta da parte della Santa Sede, il 5 maggio 2008 è iniziata l’inchiesta diocesana conclusasi il 9 maggio 2015. Il 14 settembre 2016 la Congregazione per le Cause dei Santi ha emanato il decreto di validità giuridica. La sua “Positio super virtutibus” è stata consegnata nel novembre 2017.
Il 9 maggio 2014, i resti mortali di Padre Giuseppe Marrazzo sono stati traslati nel Santuario di Sant’Antonio e deposti nello stesso sepolcro dove, per oltre sessant’anni, erano state collocate le spoglie di Sant’Annibale Maria Di Francia.
Autore: Emilia Flocchini